Il guerrilla marketing non ha mai voluto vendere
Come una nuova generazione ha trasformato l’attivismo in arte contro i bilionari.
Rossella Forlè, Founder We Hate Pink
Il guerrilla marketing non è mai stato pensato per essere gentile.
Quando Jay Conrad Levinson coniò il termine nel 1984, prendendolo in prestito dalla guerrilla warfare, non stava parlando di installazioni patinate o di pop-up brandizzati, ma di asimmetria: piccoli giocatori che usano sorpresa, agilità e audacia per sfidare i giganti. L’idea era che fosse la creatività, non il capitale, a conquistare l’attenzione.
Ma molto prima che Levinson gli desse un nome, la pratica esisteva già.
I situazionisti la chiamavano détournement — l’arte di dirottare i messaggi dominanti e piegarli per rivelarne l’assurdità.
Negli anni ’70 e ’80, collettivi come le Guerrilla Girls o i primi movimenti di culture jamming, come Adbusters, incollavano manifesti sui cartelloni pubblicitari, modificavano le inserzioni sulle riviste e usavano il linguaggio visivo del capitalismo per sabotarlo dall’interno.
Il guerrilla marketing è nato non nelle sale riunioni, ma per strada, dalla protesta, dalla parodia e dal rifiuto delle regole del gioco.
Quarant’anni dopo, quelle stesse tattiche sono riemerse in un terreno inaspettato: la lotta contro i miliardari.
In tutta Londra, a un tratto di notte, sono comparsi poster parodici — “Tesla: la Swasticar”, “Autopilot per la tua auto”. Autocrati per il tuo paese.”
La campagna, lanciata da un collettivo britannico chiamato Everyone Hates Elon, ha riportato il guerrilla marketing alle sue origini: uno strumento di dissenso.
I loro manifesti imitano le vere pubblicità, stampati sulla stessa carta lucida, infilati di nascosto in pensiline e cartelloni. Gli interventi sono irriverenti, effimeri e politicamente carichi, esattamente ciò che Levinson intendeva con “shock value per centimetro quadrato”.
Eppure, questa non è pubblicità. È antipubblicità. Un'azione di culture jamming contro il culto della personalità che circonda figure come Elon Musk.
Il messaggio del collettivo non è “compra questo”, ma “guarda meglio”. Il loro recente evento London vs Musk — in cui i partecipanti erano invitati letteralmente a distruggere una Tesla in un capannone industriale — ha sfumato i confini tra arte, protesta e catarsi.
Il tutto è stato ripreso, diffuso sulla stampa e dibattuto online per giorni: una vera lezione su come dirottare il ciclo mediatico armati solo di rabbia, di ironia e di un martello. (Read more on The Guardian)
Tesla: the Swasticar,” The campaign, launched by the UK collective called Everyone Hates Elon.
Non sono soli. Il collettivo britannico Led By Donkeys, noto per proiettare le bugie dei politici sulla facciata del Parlamento, ha recentemente guidato una Tesla lungo una spiaggia del Galles, tracciando sulla sabbia la scritta “Don’t Buy a Tesla”. Un messaggio di 250 metri, visibile dall’alto. (Fonte: Business Insider)
Pochi giorni dopo, hanno presentato un’installazione al Glastonbury Festival con sagome di cartone di miliardari della tecnologia in fila per un razzo, accompagnata dallo slogan: “Mandateli su Marte mentre noi festeggiamo sulla Terra.” Spiritosa, provocatoria e perfetta da condividere online, tutto ciò che la pubblicità tradizionale sogna di essere.
Ciò che collega queste campagne non è solo il linguaggio visivo, ma l’intento.
Rivendicano la grammatica della pubblicità — i font, l’inquadratura, le headline in grassetto — e la ribaltano contro chi normalmente la controlla. Come gli interventi climatici di Brandalism o le azioni femministe delle Guerrilla Girls, ricordano che lo spazio pubblico non è neutro: è una tela ed è politico. (Scopri di più su Brandalism)
In questo senso, il guerrilla marketing non è un trucco da startup, ma un linguaggio di resistenza. Vive di sorpresa, usa l’ironia come arma e tratta l’attenzione come una merce preziosa. Quando funziona, è vivo, imprevedibile, un po’ illegale e profondamente umano.
Ed è proprio questo che lo rende così potente, in un’epoca in cui la maggior parte della pubblicità sembra automatizzata fino alla morte.
Per i creator indipendenti e i piccoli brand, soprattutto quelli mossi dai valori più che dal capitale, la lezione è chiara: non serve imitare i giganti, serve a sovvertirne il tono.
Trovare le crepe nelle loro narrazioni e piantarci dentro qualcosa di inatteso.
La miglior guerrilla non si limita a vendere: risponde.
A volte, la campagna più efficace non è quella che invita a comprare, ma quella che spinge a guardare in su, a ridere e a chiedersi chi stia davvero comprando chi.